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Psicologa-Psicoterapeuta Sistemico Relazionale, iscritta all'albo dell’Ordine degli psicologi di Puglia con il n° 4506.


L'Altro diverso da me

I rapporti di conoscenza dell’Altro sono fortemente influenzati da alcuni processi psicologici che possono comportare “l’esclusione di determinati individui o gruppi da una comunità morale”, ovvero al di fuori dei confini entro cui si applicano le regole condivise di giustizia e equità. [1]

La maggior parte dei processi sottostanti alla conoscenza sociale si basano su un’economizzazione delle risorse cognitive. Quando le circostanze rendono limitata la capacità cognitiva, per far fronte ad una realtà troppo complessa e differenziata, gli individui utilizzano meccanismi di semplificazione e organizzazione delle conoscenze. Due dei processi più influenti sulla nascita di fenomeni di esclusione sociale sono il processo di categorizzazione e il processo di generizzazione.

Il primo definibile come quel “processo di ordinamento dell’ambiente in termini di categorie, attraverso il quale si raggruppano persone, oggetti o eventi simili in base alla loro pertinenza rispetto alle azioni, intenzioni o atteggiamenti individuali” [2]. Il secondo come “la tendenza costante della mente umana ad estendere ad ampie serie di eventi le osservazioni effettuate sui pochi eventi”.

Lo stesso processo sottostante alla categorizzazione di oggetti esterni è presente nel rapporto con il mondo sociale. Nella prospettiva del costruzionismo sociale, la categorizzazione sociale può essere vista come un sistema di orientamento che contribuisce a definire il posto specifico dell’individuo all’interno della società [3].In altre parole, categorizziamo le persone quando le percepiamo più come rappresentanti di determinate categorie sociali che come individui dotati di caratteristiche specifiche.

Combinando processi di categorizzazione e generalizzazione un individuo può selezionare ed interpretare le informazioni sugli altri in sintonia con caratteristiche comprese in quella categoria e a compiere una serie di generalizzazioni che possono comportare stereotipi e pregiudizi.

Il pregiudizio viene definito, a seconda del livello di generalità o di specificità che si decide di assumere. Il massimo livello di generalità corrisponde al significato etimologico, vale a dire giudizio precedente all’esperienza o in assenza di dati empirici, che può intendersi quindi più o meno errato. Al massimo livello di specificità i pregiudizi vengono definiti, atteggiamenti negativi verso persone, gruppi o altri oggetti sociali, assunti a priori e mantenuti anche di fronte a fatti che lo contraddicono [4]. Le prime ricerche effettuate allo scopo di comprendere le radici del pregiudizio in generale furono di diverso genere: alcune furono dirette a verificare l’esistenza di una correlazione diretta tra atteggiamento e comportamento , come la ricerca effettuata da La Piere nel 1934 il quale in un periodo di intenso pregiudizio contro gli orientali visitò 128 ristoranti in compagnia di una coppia di cinesi. Contrariamente all’atteggiamento negativo espresso dai proprietari, la coppia fu accolta cortesemente e senza incidenti, ciò fu la dimostrazione empirica della inconsistenza tra atteggiamento e comportamento. Altri autori come Likert e Thurstone [5] analizzarono, utilizzando modelli di tipo matematico, la disponibilità delle persone ad avere contatti con gruppi etnici diversi dal proprio. In generale si ritrovò comunque una scarsa corrispondenza tra atteggiamenti e comportamenti, e ciò a dimostrazione del fatto che il pregiudizio è spiegabile soprattutto a livello psicologico, e non comportamentale. Inizialmente ci si limitò a descrivere più che altro i contenuti di tali atteggiamenti, e non i processi che vi sono alla base. In seguito ciò che risultò evidente fu la necessità di spiegare tali atteggiamenti riferendosi ad un contesto ampio, cioè in base a fattori di tipo sociale, culturale, economico, politico e individuale e la necessità di scoprire i principi sistematici che determinano quando gli atteggiamenti generali sono trasformati in comportamento.

Il concetto di pregiudizio è strettamente connesso con quello di stereotipo. Mazzarra [5] afferma che lo stereotipo costituisce quello che possiamo indicare come nucleo cognitivo del pregiudizio. Il concetto di “stereotipo” è stato introdotto nelle scienze sociali dal giornalista Walter Lippman al fine di comprendere i meccanismi di formazione dell’opinione pubblica. Lippman sosteneva che la realtà così complessa può essere conosciuta solo attraverso la costruzione d’immagini mentali o rappresentazioni che l’uomo si crea, sulla base di operazioni di semplificazione e di organizzazione preventiva dei dati, la quale influenzerebbe a sua volta la raccolta e la valutazione degli stessi. Tali stereotipi avrebbero origine prevalentemente sociale, derivando essenzialmente dal contesto culturale e svolgerebbero l’importante funzione di spiegare il comportamento e l’organizzazione sociale esistente [6]. Le prime ricerche sugli stereotipi sono focalizzate principalmente sul perché questi si creino, e si limitano alla descrizione dei contenuti delle immagini di altre nazionalità, registrandone le variazioni in relazione ad eventi storici e allo stato dei rapporti tra gruppi interessati.

A Katz e Braly [7] si deve la prima ricerca empirica sugli stereotipi etnico-nazionali. La loro tecnica d’indagine verrà usata quasi invariata in moltissimi studi successivi. Ai soggetti veniva sottoposto una lista di aggettivi con la richiesta di indicare quali di essi fosse tipico di ciascun gruppo. Ne risultavano dei profili dei singoli gruppi etnico-nazionali molto differenziati tra loro, e molto omogenei al loro interno; le associazioni aggettivo-gruppo rivelarono i condizionamenti dei mezzi di comunicazione, il che faceva pensare che gli stereotipi venissero acquisiti per la maggior parte attraverso i mass media, piuttosto che derivati dalle esperienze personali.

A riguardo il sociologo Boltanski [8] sostiene la possibilità di sviluppare sentimenti empatici per gruppi lontani rappresentando gli altri, attraverso i mass media, come individui dotati di singolarità e mai come masse anonime indifferenziate. Gli stereotipi degli studi sopra citati comprendevano le credenze verso aspetti fisici e comportamentali dei membri dei gruppi e le valutazioni di tali aspetti; gli aggettivi maggiormente associati a un gruppo costituivano le caratteristiche primarie dello stereotipo del gruppo. Per esempio, risultò che gli italiani erano artistici e impulsivi, i neri superstiziosi e pigri, i tedeschi razionali e laboriosi, gli ebrei scaltri e attaccati ai soldi e così via, ma soprattutto i singoli profili risultavano altamente condivisi. In tempi successivi altri studi hanno applicato lo stesso schema di ricerca giungendo a risultati non molto diversi da quelli delle prime ricerche, ma con significativi mutamenti nei contenuti degli stereotipi stessi (tendenza ad usare descrizioni più neutre per le minoranze e con minori connotazioni svalutative, introduzione di elementi autocritici per il gruppo maggioritario). Oggi per stereotipo si intende un «opinione precostituita su una classe di individui, di gruppi o di oggetti che riproducono forme schematiche di percezione e di giudizio» [9].

Se questi stereotipi vengono condivisi da grandi masse di persone all’interno dei gruppi diventano stereotipi sociali. Data una certa immagine negativa di un gruppo si può essere convinti che pressoché tutti gli individui di quel gruppo possiedono tali caratteristiche nella stessa misura. Ad esempio l’affermazione “Tutti gli zingari sono ladri” esprime una generalizzazione stereotipica della categoria degli zingari.

Può succedere che si presentano informazioni incoerenti con lo stereotipo, e così si cerca una spiegazione alternativa: si creano specifici sottotipi, una sottocategoria, all’interno di un gruppo sociale più ampio o si applica il Refencing, che consiste nel dissociare il membro “atipico” dalla sua categoria inducendoci a considerarlo un caso eccezionale. Le informazioni, per diventare coerenti con le nostre credenze e stereotipi su determinate persone o gruppi, possono anche essere interpretate tramite il group serving bias di attribuzione, ovvero la tendenza ad attribuire a cause interne i comportamenti positivi del proprio gruppo e i comportamenti negativi degli altri gruppi e a cause esterne i comportamenti negativi dell’ingroup e quelli positivi dell’out-group [10]. Gli stereotipi inoltre spingono gli individui ad agire in modo da produrre comportamenti in grado di confermare le loro aspettative, è quella che Watzlawick chiamerebbe una “profezia che si autoavvera”. Esemplificativo in questo senso è la spiegazione di quello che Rosenthal [11] ha definito effetto Pigmalione. In tutti quei contesti dove si sviluppano rapporti sociali, le nostre aspettative possono influenzare in maniera radicale la qualità delle nostre relazioni e le performance che possiamo ottenere dagli altri. Chi è stato oggetto di discriminazioni sviluppa un concetto negativo di sé il quale causa numerosi comportamenti disfunzionali come la cosiddetta “volontà di fallire”, ovvero non provare neanche ad affrontare un compito perché si ha la sicurezza di non riuscire a svolgerlo; comportarsi in modo da giustificare i pregiudizi nei propri confronti; o infine arrivare a sviluppare forme di ostilità auto diretta.

Gli stereotipi e i pregiudizi non sono soltanto prodotti della mente individuale ma possono diventare “atteggiamenti” condivisi da un’intera cultura.

Nella seconda parte ci soffermeremo sulle relazioni intergruppi e sul ruolo delle esperienze emozionali nella svalutazione e discriminazione di determinati gruppi sociali.

Bibliografia

  1. Ravenna M. 2004 "Carnefici e Vittime. Le radici psicologiche della Shoah e delle atrocità sociali", Bologna, Il Mulino.
  2. Villano P., 2003 "Pregiudizi e stereotipi", Roma, Carocci, p. 11
  3. Ugazio V. 1997 "La costruzione della conoscenza. L'approccio Europeo alla cognizione del sociale". Milano, FrancoAngeli.
  4. Tajfel 1981 "Human groups and social categories. Studies in social psychology", Cambridge, Cambridge University Press.
  5. Palmonari A. , Cavazza N. e Rubini M. 2002 Psicologia sociale. Bologna, Il Mulino.
  6. Mazzara B. 1997 "Stereotipi e pregiudizi", Il Mulino, Bologna.
  7. Ferri, M. 2006 "Come si forma l'Opinione pubblica. Il contributo sociologico di Walter Lippmann", Milano, Franco Angeli.
  8. Boltanski L. 2000 "Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica". Milano, Cortina Raffaello.
  9. Galimberti U. 1999 "Psicologia", Le Garzantine, Garzanti, Torino.
  10. Hewstone M. e Jaspars J. 1982 "Intergroup relations and attribution processes" in H In: H. Tajfel (Ed.). Social Identity and Intergroup Relations. Cambridge University Press and Paris: Editions de la Maison des Sciences de l'Homme.
  11. Rosenthal R. e Jacobson L. 1968 "Pygmalion in the Classroom".