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Psicologa-Psicoterapeuta Sistemico Relazionale, iscritta all'albo dell’Ordine degli psicologi di Puglia con il n° 4506.


L'Altro diverso da me - Seconda Parte

L’esistenza delle persone viene regolata dal rapporto interno tra “identità personale”, che designa ciò che ognuno di noi pensa e sente di essere come individuo e l’“identità sociale”, che identifica “quella parte dell’immagine di sé di un individuo che deriva dalla sua consapevolezza di appartenere ad un gruppo sociale” [1].

La relazione tra i gruppi ha una componente cognitiva e una componente emotiva che interagiscono durante la percezione, la valutazione e il comportamento sociale. Alcune teorie si sono soffermate maggiormente sugli aspetti cognitivi, altre sulle emozioni elicitate. Tra le prime rientra la “Teoria dell’autocategorizzazione” secondo la quale l’identità sociale emerge come la risultante di un processo di categorizzazione continuo di sè e degli altri a diversi livelli di generalizzazione. A livello superiore gli individui si autodefiniscono come esseri umani nei confronti di altre specie, a livello intermedio emerge la categorizzazione in ingroup/outgroup (MIO gruppo/TUO gruppo) e a livello subordinato gli individui si definiscono come singoli individui. L’accessibilità e l’adeguatezza sono i fattori determinati la categoria saliente [2]. Se ci soffermiamo a livello intermedio prevale la nostra appartenenza ad un gruppo. L’immagine che ciascuno ha di sé è largamente determinata dall’immagine che si ha del proprio gruppo e dallo stato complessivo dei rapporti fra gruppi sociali significativi. Una relazione tra due gruppi sociali di tipo etnocentrico, si caratterizza innanzitutto per il fatto che l’ingroup percepisce l’outgroup come diverso da sé[3]. Questa percezione svolge un ruolo importante nella svalutazione e discriminazione di determinati gruppi sociali. La ricerca sperimentale ha dimostrato come sia sorprendentemente facile generare ostilità tra i gruppi. Diversi psicologi sociali hanno ricercato le condizioni minime sufficienti a creare discriminazione fra i gruppi. [Rabbie e Horwitz; Sherif; Tajfel]. Tra questi Tajfel[4] sostiene che la semplice categorizzazione sociale (per intenderci: donna/uomo; bianco/nero; Settentrionale/Meridionale ecc.) provoca negli individui la messa in atto di comportamenti che tendono a favorire il gruppo di appartenenza e a discriminare l’outgroup. In una situazione in cui si pongono a confronto due gruppi, si attiva, nei membri di ognuno di essi, il bisogno di affermare la specificità positiva del proprio gruppo a scapito dell’altro (favoritismo dell’ingroup), assumendo anche atteggiamenti e comportamenti ostili. Il Common Ingroup Identity Model[5] si focalizza sull’efficacia della ri-categorizzazione dovuta alla percezione di membri di diverse categorie come appartenenti ad una medesima categoria sopraordinata. In questo modo, gli atteggiamenti positivi si possono estendere ai membri dell’outgroup subordinato, che sono percepiti come più vicini a sé in virtù della nuova identità comune. La categorizzazione sovraordinata può determinare, quindi, condizioni di contatto favorevoli e riduzione degli stereotipi e dei pregiudizi associati all’outgroup.

Quali esperienze emozionali evocano determinate condizioni sociali in un gruppo? Che peso hanno queste esperienze sul comportamento verso l’outgroup? Tra le teorie che si soffermano sull’aspetto emotivo c’è la “Teoria delle emozioni intergruppi”, introdotta da Mackie e Hamilton in “Affect, Cognition and Stereotyping”[6], la quale sostiene (come la “Teoria dell’autocategorizzazione”) che la relazione tra i membri di un gruppo costituisce una parte integrante di sé stessi. Questa teoria sottolinea l’influenza delle esperienze emozionali sul pregiudizio e sulla natura delle relazioni intergruppi. Quando gli individui categorizzano se stessi come membri di un gruppo, si considerano come elementi intercambiabili del gruppo stesso piuttosto che individui unici. Il gruppo acquisisce un significato emozionale, ogni situazione o evento che colpisce l’ingroup provoca una reazione a livello emotivo[7]. Bar-Tal[1], ad esempio, sostiene che se l’ingroup percepisce l’outgroup come minaccioso, tale sentimento può suscitare emozioni negative come la paura, l’incertezza e la rabbia e diventare parte di una configurazione del pregiudizio contro l’outgroup. Alternativamente se l’outogroup è percepito positivamente possono essere evocate emozioni positive le quali conducono a comportamenti favorevoli. Come diminuire l’associazione tra emozioni negative e comportamenti discriminanti? La condivisione sociale delle emozioni contribuisce alla diminuzione di stereotipi fra gruppi e di comportamenti discriminanti anche nei casi più drammatici. Come osservano Hutchison e Bleiker[8] nel processo di ricostruzione dei legami dentro una comunità lacerata è necessario guardare alle proprie ferite in maniera empatica e umanizzante, ripristinando un minimo di fiducia reciproca. Alcune emozioni come l’odio, la paura e la rabbia, diventano strumenti fondamentali per la politica, mentre altri, come l’empatia e la compassione diventano marginali. Le conseguenze sono spesso fatali, nuove fonti di odio comportano nuove forme di conflitto. Riconoscere la paura e la rabbia, mettere a fuoco le condizioni socio-culturali che hanno generato le violenze subite, permette un cambiamento di prospettiva che aiuta ad assumere il punto di vista dell’Altro, riducendo la tendenza ad imputare gli abusi unicamente a caratteristiche disposizionali.

Gli effetti del contatto intergruppi quindi possono essere mediati sia da fattori cognitivi che affettivi. Nella società contemporanea in cui prevale la diversità di pensiero, di religione e di nazionalità, assumere comportamenti discriminatori e intolleranti con tutti coloro che sono percepiti “diversi” da noi, potrebbe implicare un’“omologazione” dei rapporti, stabiliti solo con i membri del proprio gruppo di appartenenza. È la tragica realtà di oggi. A volte, sia gli individui che i gruppi, non vogliono diventare consapevoli di quello che accade nelle loro famiglie, nella loro comunità. E questo processo è ostacolato da qualcuno che ci guadagna sulla nostra “ignoranza” intesa in questo senso sulla possibilità di guardarci attorno, di guardare gli occhi del nostro “peggiore nemico” e accorgerci che forse non sono così diversi dai nostri. Allora la capacità di condividere le emozioni e di assumere la prospettiva dell’altro possono diventare una nostra risorsa in grado di migliorare le relazioni sia interpersonali che intergruppi.

Bibliografia

  1. Bar-Tal, D. 1990 "Causes and consequences of delegitimizazion: Models of conflict and ethnocentrism", in "Journal of Social Issues", 46, 1, pp.65-81
  2. Turner, J.C, Hogg, M.A., Oakes, P.J., Reicher, S.D. e Wetherell, M.S, 1987 "Rediscovering the Social Group: A Self- Categorization Theory, Oxford, Blackwell. Oxford: Blackwell.
  3. Ravenna M. 2004 "Carnefici e Vittime. Le radici psicologiche della Shoah e delle atrocità sociali", Bologna, Il Mulino.
  4. Tajfel 1981 "Human groups and social categories. Studies in social psychology", Cambridge, Cambridge University Press.
  5. Gaertner, S. L. & Dovidio, J. F. 2000 "Reducing Intergroup Bias: The Common Ingroup Identity Model". Philadelphia, PA: Psychology Press.
  6. Mackie, D.M., Hamilton, D.L. 1993 "Affect, Cognition and Stereotyping". San Diego: Academic Press
  7. Miller, N., Smith, E. R., & Mackie, D.M. 2004 "Effects of intergroup contact and political predispositions on prejudice: Role of intergroup emotions". Group Processes and Intergroup Relations, 7, 221-237
  8. Hutchison, E. e Bleiker, R. 2008 "Emotional reconciliation. Reconstituting identity and community after trauma". European Journal of Social Theory, 11, 385-403.